Si parla di formule magiche, di rituali che poggiano le loro radici nell’antichità, di mostruosità e paure ataviche, di composti vegetali dall’alto valore simbolico oltre che medicinale; eppure, non ci si azzardi a dire che tutto ciò è un qualcosa di “straordinario” o fantasmagorico.
È, o forse è meglio dire era, una parte della quotidianità.
Questi termini, pratiche e visioni del mondo erano infatti elementi comuni nelle vite delle persone fino a poche decine di anni fa, e non è un caso che ancora oggi sia possibile farsi “togliere” il malocchio o il fuoco di Sant’Antonio da segnatori e segnatrici, presenti in quasi tutti i paesi montani e rurali e persino in alcune città.
Una conoscenza, un rito sociale dunque estremamente vicino a noi, almeno da un punto di vista temporale, un patrimonio inestimabile che molti studiosi, tra cui spicca lo scrittore lunigianese Riccardo Boggi, hanno provato a “salvaguardare” imprimendo questi antichi saperi su carta per mezzo dell’inchiostro.
Lo stesso Boggi, già nel 1974, aveva trascritto i testi della tradizione popolare della Lunigiana: cinquant’anni dopo, l’autore apuano (direttore, tra l’altro, del museo dell’Abbazia di San Caprasio di Aulla) aggiunge nuovi elementi alla sua ricerca etnografica con la pubblicazione “Ciel sereno, terra scura. Racconti di segnature, paure e un saggio ritrovato”, uscito nel 2023 e edito da GD Edizioni.
La coppia Boggi-“Ciel sereno, terra scura”, anche per le tematiche che affronta, non poteva di certo sfuggire al Museo italiano dell’immaginario folklorico di Piazza al Serchio, che ha deciso di invitare lo studioso lunigianese all’ultimo appuntamento dei “Giovedì al Museo”, andato in scena proprio nella serata di ieri.
All’interno di un evento seguitissimo, sia in presenza che in diretta online, Boggi è riuscito, attraverso una serie di aneddoti – alcuni di essi perfino spassosi – e numerosi racconti e testimonianze raccolte in prima persona, a rappresentare la ritualità popolare della Lunigiana e in generale della Toscana nordovest e della Liguria orientale: un mondo dove l’elemento magico non era per nulla estraneo, e anzi fungeva da potente viatico contro le paure, i dolori e le mancanze che affliggevano quell’epoca.
Questo patrimonio interiore, fatto di segnature, ricette erboristiche, riti “Del Sangue” e delle “Scoperte”, tra sapienza arcaica e ibridazioni cristiane, però, presuppone un quesito fondamentale: Cosa è rimasto di tutto ciò?
Alcuni rimasugli di conoscenza sembrano “vivacchiare” tra gli anfratti della scienza e della medicina, ma i “consumatori” di questa arte sembrano essere sempre di meno, e soprattutto appartengono alle fasce di età più anziane, al cui interno possiamo trovare gli ultimi veri testimoni di questa magia del quotidiano.
Una “notizia” che di certo non lascia sereni: se da un lato, infatti, è un bene che al giorno d’oggi basti un farmaco per guarire senza sperare in un intervento “invisibile”, dall’altro questa sicurezza rischia di cancellare per sempre un sistema di credenze millenario, forse non più necessario come un tempo, ma assolutamente imprescindibile per capire la vita e i pensieri del mondo pre-industriale e pre-globalizzato.